Sommario
Biografia
Arturo Nathan (Trieste, 1891 – Biberach, 1944) durante gli studi liceali compiuti a Trieste, sviluppa una particolare propensione verso il disegno. All’inizio degli anni Dieci, per volere paterno viene inviato a Londra per studiare presso l’Accademia navale, ma il ragazzo si rifiuta: si stabilisce a Genova per frequentare la facoltà di Filosofia.
Nel 1914, viene arruolato e inviato a Portsmouth. L’esperienza della guerra risulta drammatica e traumatica per Arturo Nathan, che, rientrato in Italia, versa in un grave stato depressivo. Per risolvere la situazione, inizia una serie di sedute di psicanalisi presso Edoardo Weiss, freudiano.
Questo lo spinge a tirare fuori le sue sensazioni attraverso il disegno e la pittura, modalità che riesce a farlo uscire dalla crisi e lo spinge a mettere in pratica realmente il sogno di dipingere. Dunque, inizia a frequentare lo studio di Giovanni Zangrando (1867-1941), pittore triestino, per poi entrare nella Scuola del Nudo della sua città.
In questo periodo di rinascita, stringe amicizia con l’artista conterraneo Carlo Sbisà (1899-1964) e con i letterati Silvio Benco (1874-1949) e Bobi Bazlen (1902-1965).
L’incontro con De Chirico
Le prime prove pittoriche di Arturo Nathan sono all’insegna di un simbolismo profondo ed allegorico, che ha molto a che fare con le teorie freudiane. Naturale, a questo punto, è l’incontro con Giorgio De Chirico (1888-1978), avvenuto a Roma nel 1925. I due hanno in comune la passione per la filosofia tedesca, per Schopenhauer, Nietzsche, per Wagner e per la tragedia.
Il pittore triestino, proprio nel segno di questo simbolismo misterico e metafisico, esordisce alla Biennale di Venezia del 1926, per poi esporvi regolarmente fino al 1936. Nel frattempo, partecipa anche alle Sindacali triestine e a due edizioni della Quadriennale romana all’inizio degli anni Trenta.
La sua pittura si fa sempre più magica e trascendente: in essa imponenti e solitarie marine di matrice böckliniana presentano enormi busti di uomini e di dei, in una sorta di rievocazione costante del mito greco.
Un pittore tormentato
Rovine si uniscono a spiagge, animali, statue e grandi navi che solcano il mare, solitamente resi attraverso una tecnica che unisce tempera ed olio su tavola. Naturalmente, dietro queste rappresentazioni angosciose si cela il tormento esistenziale di Arturo Nathan, ancora molto sensibile al ricordo della tragedia della guerra.
Begli anni Trenta espone molto anche all’estero, presentando dipinti sempre più enigmatici e metafisici che non subiscono solo l’influenza di De Chirico, ma anche quella di Carlo Carrà (1881-1966) e di “valori Plastici”.
Il riferimento, nel paesaggio e nella marina, va anche alla pittura tedesca, come accennato, e al classicismo di Lorrain e Poussin, in una continua citazione colta e poetica del passato. Nel 1939, quando soggiorna a Roma dalla sorella, Arturo Nathan compone alcuni versi che rispecchiano la stessa sensazione di solitudine e di abbandono che sprigionano le sue tele.
Ebreo, dal 1940 al 1943 viene mandato al confino nelle Marche, per poi essere rinchiuso nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Sassonia. Nel ’44, viene portato a Biberach in fin di vita, denutrito. Morirà poco dopo l’arrivo degli alleati. Ancora, e questa volta definitivamente, la guerra lo ha distrutto.
Nel 1947 e nel 1948 la Quadriennale romana e la Biennale di Venezia gli dedicano due retrospettive, seguite poi dalla grandiosa retrospettiva dedicatagli, nel 1976, presso il Museo Revoltella di Trieste.
Arturo Nathan e il realismo magico: tra dimensione onirica e Simbolismo
Quella di Arturo Nathan è una pittura profonda ed intensa. Rispecchia a pieno il detto oraziano ut pictura pöesis. Le sue opere hanno sempre un significato altro, riconducono ad allegorie, simbolismi, riferimenti alla cultura antica e alla filosofia tedesca dell’Ottocento.
Una delle prime opere note di Arturo Nathan è Fiume tropicale, caratterizzata da un forte primitivismo, quasi naïf. Seguita poi dall’Autoritratto di matrice dechirichiana esposto alla sua prima Biennale veneziana del 1926.
In questo dipinto, in cui si ritrae ad occhi chiusi, ermetico, si notano le fragilità dell’autore, ma anche l’importanza del pensiero mistico, come per l’enigma di De Chirico.
Ci sono rimaste poche opere dell’artista, sia per la sua non lunghissima vita, sia a causa del bombardamento di Trieste che ha portato alla dispersione della maggior parte delle sue tavole.
Alla Biennale del 1928 invia Malinconia di naufragio, un dipinto emblematico, che riassume tutta la sua introspezione psicologica e il suo senso di nostalgia, intesa proprio come il greco “dolore del ritorno”.
Partecipa ancora alla Biennale del 1930 con Nave in partenza e a quella del 1932 con L’abbandonata, La statua solitaria e L’incendiario. Nel frattempo, prende parte anche alla Quadriennale di Roma del 1931, presentandovi Spiaggia abbandonata e Nave naufragata.
Alla successiva Quadriennale del 1935, una delle sue ultime esposizioni importanti, espone Spiaggia al crepuscolo e la stupefacente Baia delle balene. Sono poi da ricordare La palude, Il forte, Scoglio incantato, Malinconia, tutti denotati da una soffusa dimensione onirica.
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