Enrico Mazzolani

Enrico Mazzolani. Il Gallo. Maiolica
Il Gallo. Maiolica

Biografie

Enrico Mazzolani (Senigallia, 1876 – Milano, 1968) dopo gli studi classici, si trasferisce a Roma per frequentare l’Accademia libera del Nudo, sotto la guida dello scultore romano Ettore Ferrari (1845-1929), di cui diviene assistente.

Spirito irrequieto e insofferente alle regole accademiche, all’inizio del Novecento, decide di rientrare a Senigallia, dove esegue i primi ritratti. Nel 1904, si sposta a Faenza, città in cui ha la possibilità di approfondire la lavorazione della ceramica, soprattutto in ambito decorativo.

Da Faenza a Milano

Sono anni molto proficui per la formazione di Enrico Mazzolani, che si lega all’ambiente simbolista e liberty faentino, grazie alla frequentazione di scultori e ceramisti come Domenico Baccarini (1882-1907), Ercole Drei (1886-1973) e Pietro Melandri (1885-1976).

Due anni dopo, si trasferisce a Milano, lavorando come aiuto architetto per diversi anni, insieme a Luigi Broggi (1851-1926). Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, verso il 1917 abbandona l’architettura per ricominciare a lavorare la ceramica, esponendo soprattutto a Milano.

Negli anni Venti, si avvicina al ritorno all’ordine, con la frequentazione di alcuni artisti milanesi dell’ambito di Novecento, come Anselmo Bucci (1887-1955) e Leonardo Dudreville (1885-1976) e Alberto Salietti (1892-1961).

Il successo degli anni Venti e Trenta

È in questo momento che Enrico Mazzolani formula definitivamente la sua cifra stilistica, sempre molto legata al medium della ceramica. Il suo repertorio si riempie di figure allungate e filiformi, particolarmente espressive grazie alle pose spigolose e vertiginose. Nudi di donna, piccoli gruppi scultorei, maschere funebri dal formalismo levigato racchiudono una tensione emotiva e spirituale che fa dello scultore un unicum nel panorama milanese degli anni Venti e Trenta.

Dopo aver partecipato alla Biennale d’Arte decorativa di Monza nel 1925, nel 1927 viene invitato ad esporre alla Galleria Pesaro, in una collettiva, insieme a Umberto Prencipe (1879-1962) e Alberto Caligiani (1874-1973).

In catalogo, viene presentato da Anselmo Bucci, che con fare poetico, di lui scrive: «Se di noi non rimanessero che queste esili forme a testimoniare, credo che l’anima della nostra età secca, febbrile, ardita sarebbe rappresentata. Di quale scultore si può dir tanto?». E poi aggiunge, «Vedi là quelle gambe lunghe come steli, con le calze di terracotta. Quando se non ora, le tibie, le scapole, gli sterni, tutte le ossa assursero ad onori divini?».

Ciò che descrive sono le esili e fragili ossature delle figure in ceramica dai copri nervosi e appuntiti, costruiti attraverso un formalismo elegante ed espressionista. Nel 1928, prende parte alla Biennale di Venezia, e alla Mostra Nazionale della Ceramica di Pesaro, dove aveva esposto anche nel 1924.

La maturità

Accanto ai nudi femminili di impianto déco, Enrico Mazzolani si dedica a ritratti di personaggi del passato di cui mette in risalto l’aspetto grottesco ed introspettivo. A questo punto, le raffinate dolcezze epidermiche delle figurine in ceramica si trasformano in un formalismo vigoroso e solido, con tendenze alla sintetizzazione e con evidenti richiami al linguaggio di Adolfo Wildt (1868-1931).

Raffinatezza e stilizzazione vanno di pari passo, nella produzione degli anni Trenta. Diverse sue opere sono andate perdute a seguito del bombardamento del suo studio milanese nel 1943. Dopo questa data, si trasferisce a Varese, dove lascia le sue opere in terracotta senza che sia sottoposta al processo di smaltatura.

Nel dopoguerra, il successo dello scultore va affievolendosi, nonostante continui costantemente a lavorare sui suoi modelli femminili affusolati. Piano piano, esce dal circuito delle esposizioni e si concentra sulla ripetizione dei soggetti giovanili. Muore a Milano nel 1968, a novantadue anni, quasi dimenticato.

Enrico Mazzolani e il linearismo decorativo: figure esili ed allungate di matrice espressionista

Nella critica coeva, in riferimento alle opere di Enrico Mazzolani, si è spesso parlato di tendenza alla pornografia. Ma lo scultore stesso ha affermato «chi parla di pornografia non mi intende. Questa mia arte è come l’età nostra: l’età dello scheletro nudo e raso…». Con queste parole vuole fa intendere come l’era in cui vive sia attraversata da note di dolore, espresso da ossa visibili ed epidermidi vive e segnate dal tempo, come spesso si nota dai suoi nudi angustiati o dagli intrecci tra corpi.

Dopo aver esposto L’organista cieco alla Permanente di Milano del 1917, lo scultore ricomincia a partecipare alle esposizioni nel dopoguerra, con una rinnovata sensibilità decorativa. Alla Biennale d’Arte decorativa di Monza del 1925 presenta Carezze: fanciulla con levriero.

La «sensazione ritmica e spaziale che sta nella forma»

Nel 1927, alla Galleria Pesaro, espone più di trenta opere, tra cui Il gallo, Leda, La violinista, Il dramma, Il sogno, L’adolescente, Ida nuda, Beethoven – maschera e San Francesco. Queste sculture in ceramica rappresentano l’essenza della migliore produzione di Enrico Mazzolani.

Spigolature, tensioni drammatiche, pose ardite, visibile espressività dei volti e dei corpi. Le stesse caratteristiche vengono riprese nel Panem nostrum della Biennale di Venezia del 1928 e nella sensuale e incisiva Notte nuziale del Convegno d’Arte Pittura e Scultura di Milano del 1930.

Due anni dopo, è di nuovo alla Galleria Pesaro con un’altra ventina di opere, tra cui l’espressivo Nudo di donna, Giovinezza, di matrice déco, la luminosa e sintetica Preghiera. E ancora, la sorella maggiore, Leda col cigno e Elena.

In una recensione sulla mostra, apparsa su un numero di “Emporium” del 1932, le sculture di Enrico Mazzolani vengono elogiate per «le ottime sagome d’insieme, che bloccano armoniosamente e quasi liricamente le composizioni e le figure […] decorativamente assai aristocratiche e spesso persino classiche».

Lo stesso scultore cerca la «forza ritmica e spaziale che sta nelle forme» effettivamente modellate come se si esprimessero, di volta in volta, con delicati passi di danza. Eccezion fatta per i ritratti, le maschere funebri e le figure maschili, che spesso appaiono nella loro dimensione più primitivista e spigolosa, come si nota nel Michelangelo o nella Maschera di Beethoven.

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