Giovanni Colacicchi

Giovanni Colacicchi. Uliveto sotto le Mura di Anagni. Tecnica: Olio su tela
Uliveto sotto le Mura di Anagni. Tecnica: Olio su tela

Biografia

Giovanni Colacicchi (Anagni, 1900 – Firenze, 1992) nasce in una famiglia molto conservatrice di Anagni. Compie gli studi ginnasiali in seminario e riceve dunque una formazione solidamente cattolica. Date le sue doti artistiche, nel 1916 la famiglia gli consente di trasferirsi a Firenze per studiare i maestri del Rinascimento.

La formazione fiorentina

In particolare passa lunghe sessioni di ricerca nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, per studiare gli affreschi di Masaccio. Rimane a Firenze, dove inizia il suo apprendistato presso il pittore Francesco Franchetti (1878-1931), ma contemporaneamente frequenta anche lo studio di Garibaldo Cepparelli (1861-1931) a San Gimignano.

Al Caffè delle Giubbe Rosse a Firenze, entra in contatto con diversi artisti e letterati del tempo, tra cui Aldo Palazzeschi e Libero Andreotti (1875-1933).
Tra gli anni Dieci e Venti, a San Gimignano, conosce anche Raffaele De Grada (1885-1957) che gli offre una valida reinterpretazione dei modi compositivi di Cézanne, cui si avvicina con passione.

È un periodo molto fecondo per Giovanni Colacicchi: collabora attivamente alla rivista “Solaria” e soprattutto frequenta la casa dello scultore Adolf von Hildebrand (1847-1921) a Bellosguardo. Vi incontra intellettuali e artisti di ogni tipo e soprattutto inizia ad interessarsi al Simbolismo nordico.

La scoperta del Simbolismo tedesco

È attratto dal classicismo che si coniuga con le mitologie arcane di Arnold Böcklin (1827-1901), ai passaggi onirici di Max Klinger (1857-1920) e alla tragedia nell’interpretazione immortale di Nietzsche.

Ecco che la cultura umanistica e romantica viene esplorata a pieno dal giovane artista e studioso Giovanni Colacicchi: legge con avidità Novalis, Schopenahuer, Schiller e Höderlin. Insieme a Franchetti visita la Stazione zoologica di Napoli affrescata da Hans von Marées (1837-1887) nel 1878.

A questo punto, il verismo di matrice ottocentesca viene allontanato in favore di una visione ideale della pittura, tesa al raggiungimento di una dimensione sublime e che vada al di là della mera radice del reale.
In questa dimensione per così dire Metafisica, nella metà degli anni Venti, l’ormai ventiseienne artista espone con il gruppo Novecento.

Ciononostante, Giovanni Colacicchi non appoggia in pieno il radicale valore puramente estetico del ritorno all’ordine. Ne sposa la solennità e la riscoperta dei grandi maestri italiani, ma riempie sempre le sue composizioni di significati simbolici e letterari, finanche onirici e mitologici.

L’arcaismo di Paolo Uccello, di Andrea del Castagno e di Piero della Francesca fanno parte del suo linguaggio silenzioso e spirituale, contraddistinto da volumi pieni e disegno impeccabile.

Gli anni Trenta e Quaranta: il Nuovo Umanesimo

Nel 1932, Giovanni Colacicchi ha una sala personale alla Biennale di Venezia e nel 1935 espone alla Quadriennale di Roma. Dopodiché, passa un periodo a Città del Capo, riportandone diverse opere e impressioni. Rientrato a Firenze, ne decora l’Accademia di Belle Arti, dove, tra l’altro insegnerà fino al 1970 e sarà direttore praticamente fino alla morte.

Intorno alla fine degli anni Trenta, tiene una personale a La Cometa di Roma ed entra in contatto con la Scuola Romana. Ne deriva un cambiamento che lo porta a dipingere attraverso una pennellata meno pulita e più graffiante, spesso colta da improvvise accensioni di luce.

Ritornerà ad un pieno e ponderato classicismo quattrocentesco quasi subito, grazie anche all’incontro fiorentino con lo storico dell’arte Bernard Berenson.

Dopo la guerra, nonostante molti artisti si rivolgano all’informale, Giovanni Colacicchi rimane fermo nella sua ricerca, fondando il gruppo Nuovo Umanesimo nel 1947 e aderendo contemporaneamente al Partito d’Azione.

Dopo aver partecipato alla sua ultima Biennale nel 1948 e dopo la maestosa decorazione del Cinema Gambrinus di Firenze, si ritira piano piano dalle esposizioni, dedicandosi soprattutto all’insegnamento e all’attività di critico per “La Nazione”. Muore a Firenze nel 1992, a novantadue anni.

Giovanni Colacicchi: la riscoperta del Quattrocento toscano e la pittura “ideale”

Gli studi giovanili di Giovanni Colacicchi avranno importanza per tutta la sua produzione. La scoperta dell’equilibrio formale dell’Umanesimo fiorentino, a partire da Masaccio per arrivare a Piero della Francesca, segna come un’impronta indelebile il suo linguaggio.

Sin dalle sue prime composizioni, il giovane artista riesce dunque a permeare quella ponderazione classica e quella solennità silenziosa del Quattrocento.
Ma gli studi filosofici e letterari e soprattutto l’avvicinamento al Simbolismo tedesco che riscopre la tragedia e la mitologia classica, rendono queste composizioni quasi metafisiche.

Così, il giovane pittore dà vita ad opere composte e levigate, ordinate e classiche, ma ricche di memorie letterarie e filosofiche. Nel 1926 espone questi risultati alla mostra di Novecento, ma partecipa anche per la prima volta alla Biennale di Venezia con Paese e La fabbrica.

Paesaggi armonici e di derivazione toscana come Meriggio d’estate e Uliveto sotto le mura di Anagni compaiono alla Biennale veneziana del 1928, ricomparso anche alla Mostra d’Arte Regionale Toscana del 1929, insieme ad un poetico ed intenso autoritratto di memoria rinascimentale.

Una donna di Anagni, classica e maestosa come una Madonna, viene esposta dall’artista alla I Quadriennale romana del 1931.
Nella sala personale della Biennale di Venezia del 1932, invece, compaiono Amazzoni ferite, Autoritratto, Orfeo, Natura morta, La sera di settembre, Lo spizzone, Veduta di Anagni e Vecchio tirassegno, che gli procurano un enorme successo di critica.

Partecipa alla Quadriennale di Roma del 1935 con due Nature morte e il bellissimo pannello orizzontale con Niobe. Dall’esperienza sudafricana riporta alcuni dipinti come Gli esuli, Frutta sudafricana e Saldhana Bay, assoluti nella loro purezza enigmatica e luminosa.

Dopo la breve esperienza romana, ritorna al classicismo che lo ha sempre contraddistinto, portato avanti sino agli anni Settanta, con quei nudi di donna pieni e statuari.

Con l’Allegoria della danza e della musica decora il Cinema Gambrinus a Firenze, uno dei suoi ultimi sforzi pubblici ad encausto. Alla sua ultima Biennale, nel 1948, porta il dittico con Il martire e La martire, nudi masacceschi composti da piccoli tocchi ravvicinati di luce.

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