Edgardo Mannucci

Edgardo Mannucci. Idea n. 12, 1969 (dettaglio). Tecnica: Bronzo fuso, Filo di Ottone, Vetro, 90 x 63 x 12 cm
Idea n. 12, 1969 (dettaglio). Tecnica: Bronzo fuso, Filo di Ottone, Vetro, 90 x 63 x 12 cm

Biografia

Edgardo Mannucci (Fabriano, 1904 – Acervia, 1986) figlio di un marmista, sin dalla tenera età, si avvicina alla pratica scultorea nella bottega del padre. Si forma poi alla scuola per cementisti di Matelica, ma alla fine degli anni Venti, decide di trasferirsi a Roma.
Qui Edgardo Mannucci comincia a dedicarsi finalmente per intero allo studio della scultura, frequentando Raffaele Zaccagnini (1864-1935).

Nel frattempo, si perfeziona presso la scuola del Museo Artistico Industriale e condivide il suo studio con Quirino Ruggeri (1883-1955). L’amico, promotore di una scultura arcaizzante, austera e dai profondi richiami all’arte primitiva, influenza la prima fase di Edgardo Mannucci.

Così, si avvicina anche alla poetica primitivista di Arturo Martini (1889-1947), alle sue forme archetipiche caratterizzate da una grande intensità formale e simbolica.

L’attività espositiva e l’ambiente artistico romano

Questa elaborazione grave, sofferta e primitivista della figura umana è evidente nel suo esordio ufficiale a Fabriano nel 1931. Dall’anno successivo inizia a partecipare alle Mostre del Sindacato Fascista del Lazio, emergendo nell’ambiente scultoreo romano.
Stringe amicizia con Enrico Prampolini (1894-1956), ma soprattutto con Corrado Cagli (1910-1976), frequentando il Caffè Castellino a Roma. Cagli introduce Edgardo Mannucci agli artisti che gravitano attorno alla Galleria La Cometa, per cui entra in contatto con Afro (1912-1976) e Mirko Basaldella (1910-1969) e con Pericle Fazzini (1913-1987).

Partecipa alla II e alla III Quadriennale romana e subito dopo, nel 1940, parte per l’Albania per combattere. L’8 settembre del ’43 viene fatto prigioniero a Creta e quando torna a Roma nel 1944, il suo linguaggio artistico appare potentemente mutato.

Il dopoguerra

Come avviene per gran parte degli artisti degli anni Quaranta e Cinquanta, l’esperienza della guerra è un punto nodale per Edgardo Mannucci. Convinto, come molti altri, che la figura non possa bastare più a rappresentare la realtà, la devastazione, la sofferenza, si avvicina all’Informale.

Stringe amicizia con Alberto Burri (1915-1955) ed inizia ad utilizzare materiali poveri come il ferro e il vetro, dando vita ad un discorso plastico che supera le naturali idee di spazio e tempo.

Negli anni Cinquanta è molto vicino al Gruppo Origine, pur non facendone parte ufficialmente. Condivide le esperienze materiche del periodo con Ettore Colla (1896-1968), Burri e Giuseppe Capogrossi (1900-1972).

Gli anni di Arcevia

Nel 1951 è tra i partecipanti all’importante mostra “Arte Astratta e Concreta in Italia”, presso la Galleria Nazionale di Roma. Compaiono le sue prime sculture mobili, aeree, sempre realizzate con ferro, bronzo, vetro, leggere come puri segni nello spazio.

Alla fine degli anni Cinquanta raggiunge il successo in Europa e negli Statu Uniti, dove espone in diverse personali. Negli anni Sessanta si trasferisce ad Arcevia, nelle Marche. Partecipa insieme ad altri scultori come Burri, Mario Ceroli (1938) e Mauro Staccioli (1937-2018) alla manifestazione “Operazione Arcevia. Comunità Esistenziale” nel 1976.

Proprio nella cittadina marchigiana apre la Scuola di Scultura siderurgica, contribuendo alla crescita artistica dell’Italia centrale, molto attiva negli anni Sessanta e Settanta. Edgardo Mannucci partecipa alle esposizioni e alle Quadriennali romane fino agli anni Settanta, portando sempre avanti la sua idea di scultura leggera e segnica, mettendo al centro gemme o vetro. Muore ad Arcevia nel 1986.

Edgardo Mannucci: una scultura arcaizzante

Il contatto iniziale di Edgardo Mannucci con lo scultore Ruggeri lo introduce ad un plasticismo arcaizzante, primitivo, quasi grezzo. La figura umana, nella sua dimensione sofferente, compare nelle prime mostre degli anni Trenta. Alla Mostra del Sindacato Fascista di Roma del 1932 presenta Il nipotino e Mia madre.

Nel 1933 a Firenze invia invece la scultura Dina, che ancora risente dell’influsso del ritorno all’ordine e della poetica di Arturo Martini. L’anno successivo a Roma compare un San Cristoforo e nel 1935, alla II Quadriennale presenta una serie di disegni e bozzetti.

Coronano questa prima fase le sculture in bronzo presentate alla Quadriennale 1939. Si tratta di Ritratto di bambino e Ritratto di donna, due opere austere, cariche di una linearità rigida che richiama le forme del Quattrocento italiano.

Il dopoguerra: l’abbandono della figura e l’Informale

Come accennato, Edgardo Mannucci, straziato dalla guerra, rientra in Italia nel ’44. Abbandona completamente la scultura figurativa e si avvicina alla Scuola Romana, alla linea come espressione primaria. ù

Un tratto nervoso ed espressivo lo avvicina inizialmente a Cagli e Basaldella. Per poi inoltrarsi in un tratto personalissimo e originale, molto vicino alle esperienze internazionali.

Impossibile, infatti, non trovare un contatto tra le sculture dell’americano David Smith (1906-1965) e quelle di Edgardo Mannucci. Oggetti carichi di una valenza materica e spaziale – ci si può infatti girare intorno o guardare attraverso – le opere dell’artista sono giochi tra linee e ambiente circostante, tra tridimensionalità e bidimensionalità.

Il ferro, il bronzo, il vetro, rifiuti bruciati e gemme costituiscono le materie prime di Edgardo Mannucci. Partecipa alle Biennali di Venezia degli anni Cinquanta con queste sculture fatte di fili leggeri di metallo, arricchite di altri oggetti.

Negli anni Sessanta inizia a concepire il progetto del ciclo Idee, composto da una serie di sculture che uniscono ferro, resine e un nucleo centrale più brillante di vetro o gemme.

È il gruppo di opere che lo consacra definitivamente al pubblico e alla critica, e che lo porta ad esporre in Europa e in America. Continua su questa linea per tutti gli anni Settanta e Ottanta, senza più tornare alla figura.

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