Vincenzo Vela

Vincenzo Vela. Giuseppe Garibaldi (dettaglio). Scultura in marmo
Giuseppe Garibaldi (dettaglio). Scultura in marmo

Biografia

Vincenzo Vela (Ligornetto – 1820 – 1891) sin da bambino viene avviato all’attività di scalpellino, nelle cave di Viggiù e Besazio. Suo fratello Lorenzo, scultore trasferitosi a Milano, lo invita a seguirlo. Quindi il ragazzo si sposta a Milano nel 1833, a soli tredici anni, lavorando come apprendista nella corporazione dei marmisti del Duomo.

Poco dopo, inizia a frequentare i corsi dell’Accademia di Brera, dove ha come insegnanti il pittore Luigi Sabatelli (1772-1850) e lo scultore Benedetto Cacciatori (1794-1871). Sin dai primi anni accademici, Vincenzo Vela si distingue tra tutti gli altri studenti e comincia ad ottenere una serie di premi.

Quando, nel 1842, ottiene una medaglia d’oro e sessanta zecchini per aver vinto il concorso indetto a Venezia per la rappresentazione a bassorilievo Cristo che resuscita la figlia di Jair, il ragazzo ne approfitterò per compiere un soggiorno di studio a Roma nel 1847. Qui, conosce Giovanni Dupré (1817-1882) e Pietro Tenerani (1789-1869).

Il successo di critica e l’attività risorgimentale

Venuto a contatto con il fervore dei moti rivoluzionari, lo scultore ventisettenne rientra a Milano intenzionato a combattere contro gli invasori durante le Cinque Giornate di Milano, poiché, anche se nato in un Cantone svizzero, si sente profondamente italiano. Rifiuterà infatti l’offerta del Governo austriaco di insegnare all’Accademia di Brera e verrà quindi accusato di odio della dominazione straniera.

A questo punto, anche nelle sue espressioni scultoree si fanno vive le sue convinzioni risorgimentali, come si nota dalle opere degli anni Quaranta e Cinquanta, ricche di uno spiccato naturalismo che coniuga alle istanze romantiche e lo fa apprezzare dalla critica e soprattutto dal pittore Francesco Hayez (1791-1882).

Dalla metà degli anni Quaranta in poi, la fama di Vincenzo Vela raggiunge il suo culmine, quando riceve moltissime committenze, premi e riconoscimenti, soprattutto nel corso delle sue esposizioni braidensi.

Il trasferimento a Torino e il rientro a Ligornetto

Nel 1852, cacciato dagli austriaci, passa un breve periodo a Lingoretto dai genitori e poi si trasferisce a Torino, dove, tra il 1856 e il 1867, insegna scultura all’Accademia Albertina. È durante il periodo torinese che Vincenzo Vela si distingue per la sua convinta adesione al verismo, non soltanto dal punto di vista stilistico e formale, ma anche da quello delle tematiche scelte.

Dopo alcuni polemiche seguite all’assegnazione a Dupré del monumento a Cavour, lo scultore decide di ritirarsi dall’insegnamento accademico e ritorna nella sua amata cittadina natale, Ligornetto.

Accanto ai profondi ritratti e alle intense statue sepolcrali e celebrative, lo scultore si occupa infatti di temi legati non solo alla liberazione italiana dalla dominazione straniera, ma anche alla questione sociale, soprattutto dagli anni Settanta in poi.

Il suo non è un mero e vuoto verismo sistematico, ma è un linguaggio che si riferisce alla natura tanto quanto ai sentimenti dell’uomo, alle inclinazioni dell’animo, alla sofferenza e alle gioie. Partecipa alle Promotrici torinesi dal 1855 al 1880 e nel 1883 prende parte anche all’Esposizione Internazionale di Roma.

Lavora instancabilmente fino alla fine dei suoi giorni, portando a termine, nel 1890, il monumento funebre del Duca di Lodi per la cappella di Villa Melzi sul Lago di Como. Muore nel suo paese natale nel 1891, a settantuno anni.

Vincenzo Vela: l’intensità della scultura dal Romanticismo al Verismo

Nella prima, importante fase scultorea, Vincenzo Vela aderisce sicuramente ai modi puristi di Lorenzo Bartolini (1777-1850). Negli anni Quaranta, infatti, quando si distingue a livello accademico, il giovane scultore si fa promotore di un linguaggio pulito e sentito, come si nota ad esempio dal Monumento al vescovo Luvini per il municipio di Lugano, che realizza nel 1844.

Quest’opera suscita l’ammirazione di Francesco Hayez, proprio per la morbidezza compositiva e per l’intensità emotiva, che richiama i modi di Bartolini. Proprio grazie al tramite di Hayez, il duca Litta commissiona a Vincenzo Vela La fanciulla che prega, che ancora si rifà a quella delicatezza compositiva del purismo.

Ma dopo il viaggio a Roma nella metà degli anni Quaranta, il giovane scultore porta a compimento lo Spartaco, prima in gesso, poi in marmo. Spartaco viene raffigurato forte e fiero, nell’atto di spezzare le catene della schiavitù, esplicito rimando alla sottomissione italiana alla dominazione straniera.

È una scultura ancora tipicamente romantica che però costituisce anche un netto riferimento al naturalismo, di cui Vincenzo Vela si fa promotore soprattutto a cominciare dagli anni Cinquanta.

All’Esposizione torinese del 1855 presenta Socrate nell’atto di bere la cicuta, Ritratto di ragazza, La rassegnazione, modello per una statua in marmo da collocare nel Campo Santo di Vicenza e il modello per il Monumento a Gaetano Donizetti per la Chiesa di Santa Maria a Bergamo.

Una scultura viva e palpitante

All’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 invia invece La primavera e Busto di Cavour. A questo periodo risalgono anche Monumento all’armata sarda, Monumento a Carlo Alberto e Monumento a Tito Palestrini.

A questo punto, la scultura di Vincenzo Vela si anima di un modellato espressivo che più che basarsi sulla luce, si basa su una sorta di immaginario cromatismo che la rende incredibilmente attuale e viva.

Alla Nazionale di Parma del 1870 espone il Busto di Dante, mentre Minerva compare a quella di Torino del 1880. Nel frattempo, aveva presentato il Napoleone morente all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, ottenendo lodi dalla critica e il primo premio. Nel 1883 a Roma compare l’intenso e pietoso Ecce Homo.

Il passo successivo nella ricerca del vero è sicuramente una delle opere più conosciute di Vincenzo Vela, che lo inserisce a pieno nel naturalismo di fine Ottocento, Le vittime del lavoro. Lo sfondo sociale di quest’opera si riflette non solo nel soggetto, ma anche nell’estremo verismo della rappresentazione dei minatori, che non rimanda minimamente al pietismo.

Gli uomini sofferenti non esprimono né abbandono né rassegnazione, ma solo altissima dignità di lavoratori della classe operaia, difesi e capiti in un simbolico e vitale gesto scultoreo da Vincenzo Vela.

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